Colourful: la casa di Elena Quarestani
Passa quasi inosservato. Ma se si affina la vista, quel colore pastello fra il ceruleo e il turchese, che veste l’edificio in una via del centro di Milano, cattura lo sguardo. «E pensare che ai vicini non piaceva affatto», sorride Elena Quarestani, giornalista, editrice e fondatrice dello spazio d’arte Assab One, indicando, dal giardino di casa, i palazzi di fianco. «Quell’azzurro era inaccettabile. Spavaldo, coraggioso, forse troppo felice, strideva con il classico giallo usato nell’urbanistica meneghina. Solo a Ettore Sottsass, con cui abbiamo progettato tutta la casa, poteva venire in mente una tinta così».
Conosciuto durante un’intervista, il designer e architetto ha avuto carta bianca. «O quasi. Per i materiali e le cromie che ricordano l’India, assolutamente sì. Ma per la divisione dello spazio ha assecondato richieste e esigenze della nostra famiglia numerosa, quattro figli, libri, ricordi e opere d’arte». Un lavoro di ristrutturazione durato due anni che ha trasformato una vecchia casa di cura in un totem architettonico d’autore: dove prima c’erano ambulatori e sale per le radiografie oggi, su più livelli, diverse stanze che si affacciano su un piccolo giardino interno. «Diciamo che l’abbiamo bonificata», risponde Elena con una metafora. «Questa casa ha avuto bisogno che noi la vivessimo, offrendole una premura particolare. L’abitazione ha un’anima e una storia unica. All’inizio è stato difficile abitarla perché era connotata e noi nutrivamo, soprattutto i bambini, un incredibile senso di rispetto, stavamo attenti a non fare troppo baccano. Poi l’abbiamo, in un certo senso, pasticciata. Subito dopo averla finita, Ettore mi prese da parte e mi disse: «Adesso, però, ci devi mettere delle cose vecchie”. Posso dire che oggi, in tutta questa bellezza, ce ne sono eccome».
Arte e design si toccano in ogni angolo: si riconosce la mano di Sottsass in tanti mobili, Eames nella chaise-longue, Hoffmann nella sedia a dondolo, Calder in uno dei suoi Mobiles, Alighiero Boetti in un quadro in soggiorno, Nathalie Du Pasquier in un ricamo. E poi il lampadario – all’ingresso – di Joanna Grawunder, un multiplo di Pipilotti Rist, un feticcio dal Mali. «Questo è un luogo che induce al sorriso, mette di buon umore, ha a che fare con la libertà nel trattare i colori, negli abbinamenti dei materiali. Accoglie “tanto” la vita», sottolinea distendendo la fronte, «sa essere gentile, nel tempo è diventata quasi classica, nella serenità mi ha accompagnata attraverso 30 anni, fra momenti di gioia e difficoltà». Dove c’è il giardino, trionfa al centro un piccolo albero di leccio. Tutto intorno, al posto dell’erba, un pavimento in pietra voluto da Sottsass per trasformare lo spazio in un pozzo da abitare ogni giorno fra partite a pallone, tavoli da ping pong e opere d’arte, come quella di Luca Pancrazi sul muro, composta di lettere di ceramica che recitano, profeticamente: “linea del cambiamento di data”.
«Il fatto di aver creato degli spazi dove è possibile catturare il massimo della luce è un altro elemento incredibile. Giuro», si gira volgendo lo sguardo verso le finestre. «Sono felice perfino per le piastrelle del bagno. Ho un senso di profonda gratitudine, ha qualcosa a che fare con tutti i sensi, olfatto compreso. È una casa da toccare, vedere, sentire, con cui si stabilisce un dialogo e la cui bellezza risiede nella luce. Forse», sorride stupita, «la felicità non
è altro che stare, usare, essere».